(da: Lo Yoga oltre la Meditazione – Sugli Yoga sutra di Vimala Thakar – Ed. Ubaldini)

Capitolo I
Se consideriamo il nostro vivere quotidiano, noteremo che, nell’atto del vedere, gli organi di senso come la vista, l’udito e così via sono incatenati al passato, sia il nostro passato sia quello della razza, poiché da un lato vi sono gli organi di senso dall’altro la conoscenza, le esperienze , le abitudini. Ci sono queste due catene perciò la percezione non è solo limitata o condizionata, ma prigioniera. Questa prigionia è la radice della sofferenza (klesa).
“Klesa nivrtti kaivalyam”. Soltanto attraverso la libertà incondizionata, e questo è il tema dello yoga, può esserci la ‘visione’. Pertanto la sorgente ei klesa, della sofferenza, deve essere necessariamente analizzata. Ora, perché l’atto del vedere, del conoscere e del comprendere è incatenato al passato? Per quale motivo viviamo nella percezione prigioniera, nella conoscenza limitata, eccetera?.
Vorrei poteste osservare con me il fenomeno dell’evoluzione della vita….La specie umana si è evoluta con una particolare facoltà, e cioè quella di conoscere e simultaneamente sapere che cosa significhi conoscere; di vedere e di esserne cosciente, di essere inoltre simultaneamente consapevole del risultato dell’interazione tra il vedere e il conoscere. Questo è un magnifico dono della natura, è un modo auto cosciente di esternarsi attraverso i sensi per poterla incontrare, percepirla ed esserne consapevole, è una capacità magnifica……..La specie non umana passa attraverso il dolore fisico e le conseguenti reazioni istintive, ma dukkha e le tensioni di klesa (della sofferenza) sono il privilegio della materia mentale con cui è emersa la specie umana.

Essere capaci di soffrire non è uno scherzo, è una responsabilità evolutiva. Se le fluttuazioni di vrtti, se le onde della memoria non si arrestano e continuano a causare disturbo, spezzando l’equilibrio, allora “vrtti sarupyam itaratra” avviene l’identificazione con quelle fluttuazioni. L’identificazione con i ricordi del passato o con la paura del futuro vi scuote , vi turba e genera avidya (ignoranza)…..In luogo di vidya, la verità dell’autentica percezione, prende il sopravvento avidya.…Noi viviamo in schiavitù perché siamo attratti dal passato, dal suo dominio che incombe sul momento presente nell’interazione con la vita ch ci circonda. Abbiamo l’aspirazione alla libertà eppure viviamo imprigionati, aspiriamo a kaivalyam e alla calma interiore (samatmam) e viviamo nello squilibrio cronico. Questa è l’eterna crisi…la razza umana sarà obbligata a purificare la percezione, obbligata a porre fine alla sofferenza psicologica così da poter utilizzare le invenzioni scientifiche senza causare l’autodistruzione. Fintanto che saranno presenti i cinque klesa: “avidya, asmita, raga, dvesa e abhinivesa” (ignoranza, ego, desiderio di possesso, avversione e attaccamento alla vita), non sarà possibile utilizzare le più recenti scoperte della scienza. Questa libertà interiore è il tema dello yoga, non soltanto la pratica di asana, pranayama, dharana, yama e niyama. Queste sono solo misure ausiliarie. Chi insegna lo yoga deve esplorare la possibilità di portare a termine klesa vrtti nella propria vita, come un dato di fatto, non come una teoria, non perché lo ha detto Patanjali, ma come una realtà che deve essere vissuta, come vero contenuto della vita quotidiana.

Capitolo II
Infatti avidya (ignoranza) conduce ad asmita, che porta a raga, dvesa e abhinivesa.
Avidya (ignoranza) si riferisce alle nostre potenzialità, vale a dire a colui che contiene l’energia del testimone. Noi siamo i custodi di quella citi sakti, non soltanto di citta, la coscienza condizionata, ma del divino dentro di noi. Ignorare questo potenziale che dimora in noi è detto mula avidya, l’originale ignoranza, quella basilare che conduce ad asmita, vale a dire all’errata identificazione, al senso dell’io. Vedete le specie non umane sono prodotti incompleti…..Ma soltanto all’uomo è dato di attraversare le frontiere e trascendere i confini del proprio cervello e della propria mente.
Ora consideriamo raga dvesa e abhinivesa. Che cos’è raga? La richiesta di ripetizione del piacere è raga. Questa richiesta viene fatta quando formuliamo delle scelte. Che cosè una scelta? La scelta è un piacere o intellettuale o emotivo o fisico. Il “mio” modo di vivere la “mia” preferenza, i “miei” pregiudizi……La ripetizione del piacere è il prodotto dell’attività di scegliere. Ma quando siete nella percezione e nella consapevolezza prive di scelta, non si cerca più la ripetizione del piacere…..”Duhkhanusayi dvesa”(il rifiuto è legato alla paura di soffrire): l’attaccamento che conduce all’odio è l’aspetto culminante della ricerca del piacere. Sono facce della stessa medaglia, rincorrere il piacere sfuggire la sofferenza…..Non vi è più fine alle nostre manipolazioni, perciò l’atto di vivere, che è percezione e azione nei rapporti, viene sospeso perché siamo troppo impegnati a evitare il dolore e rincorrere il godimento…..lo yoga mediante l’azione basata sulla percezione priva di scelta e sulla consapevolezza pone fine alla sofferenza di raga e dvesa.

Capitolo IV
“Klesa karma vipakasayair aparamrstah purusa visesa Isvarah” Quell’aspetto della coscienza che è incontaminato dai klesa (sofferenza), dal karma (azione generata dalla sofferenza), da vipaka (il risultato dei movimenti generati dai klesa). Quella coscienza (purusa) chiamata Isvara è il dio nell’uomo, quella misteriosa sorgente della creazione che abbraccia il cosmo intero è la vera realtà esistenziale insita nell’essere umano. Il vedanta non ne parla allo stesso modo, bensì espone la teoria che tutto è Brahma: sarvam Brahma; gli Yoga sutra forniscono spiegazioni molto più chiare e dettagliate….l’Isvara degli Yoga sutra si riferisce all’energia creativa e mutevole contenuta nel cosmo e nell’essere umano. Per coloro che non hanno la forza di sostenere il vuoto della coscienza derivante da citta vrtti niridhah, gli Yoga sutra dicono di avere riverenza e fede in Isvara, vale a dire il principio della creatività e dell’energia mutazionale contenuto in loro stessi e che li circonda. Pranidhana implica accettare, accogliere volontariamente il divino in se stessi, quel “purusa visesa Isvarah”.
(da: EMOZIONI DISTRUTTIVE di Dalai Lama e Daniel Goleman – Ed. Saggi Mondadori)
Psicologia Buddhista
Le ottantaquattromila emozioni negative
Queste emozioni così sfaccettate si riducono tuttavia alle cinque principali: odio, attaccamento, ignoranza, orgoglio e gelosia.
“L’odio è il desiderio profondo di nuocere a qualcuno, di distruggerne la felicità. Non si esprime necessariamente in uno scoppio di rabbia….E’ inoltre collegato a molte altre emozioni affini quali il risentimento, il rancore, il disprezzo, l’animosità e così via.

“Sul versante opposto troviamo l’attaccamento che, a sua volta, presenta vari aspetti. C’è il semplice desiderio per il piacere sessuale o per un oggetto che si vuole possedere. Ma c’è anche l’aspetto sottile al concetto di “io”, alla persona e alla realtà fisica dei fenomeni. L’attaccamento ha essenzialmente ha a che fare con un tipo di legame che fa vedere le cose come non sono. Porta a pensare, per esempio che le cose siano permanenti…sebbene sia chiaro che non è così. Attaccamento significa quindi aggrapparsi al proprio modo di percepire le cose.
“ C’è poi l’ignoranza, l’incapacità di distinguer tra ciò che va compiuto oppure evitato per raggiungere la verità o evitare la sofferenza .L’ignoranza, naturalmente, di solito non è considerata un’emozione nel contesto della cultura occidentale, eppure si tratta evidentemente di un fattore mentale che impedisce un riconoscimento lucido e vero della realtà. Essa è dunque uno stato mentale che oscura la saggezza e la conoscenza ultime. E’ dunque considerata un aspetto della mente che provoca afflizione.
“Anche l’orgoglio presenta molte facce: essere orgogliosi dei propri traguardi, sentirsi superiori agli altri o disprezzarli, valutare erroneamente le proprie qualità oppure non riconoscere le doti degli altri. Ciò va spesso di pari passo con l’incapacità di riconoscere i propri difetti.
“La gelosia può essere intesa come l’incapacità di gioire della felicità altrui. Non si prova mai gelosia per la sofferenza di qualcuno, ma per la sua felicità e per le sue doti. In una prospettiva buddhista si tratta di un’emozione negativa. Se il nostro obiettivo consiste nell’arrecare benessere agli altri, dovremmo essere contenti se trovano la felicità da soli. Perché mai esserne gelosi?Una parte del lavoro è già stata compiuta-resta molto meno da fare”.
I due tipi di afflizioni mentali
Il Dalai Lama osservò. “Le afflizioni mentali chiamate kleshas in sanscrito, sono considerate distorte per definizione. Il termine afflizioni mentali combacia, anche se non del tutto, con emozioni distruttive. Trattandosi del concetto parallelo più simile nell’ambito del buddhismo, esso svolgerà un ruolo centrale nella nostra discussione….L’intelligenza afflittiva distorce la realtà. Il Dalai Lama citò due punti di vista che il pensiero buddhista considera esempi classici di visioni afflittive: sostanzialismo e nichilismo. Si tratta, in due parole, di polarità filosofiche: la visione nichilista nega l’esistenza di qualcosa che esiste, mentre quella sostanzialista afferma e reifica qualcosa che non esiste……E’ invece necessario far entrare in gioco la ragione; per contrattaccare una visione distorta, bisogna far entrare in gioco l’intelligenza non afflittiva, affinché combatta l’intelligenza afflittiva.
“Bisogna combatterla con qualcosa che capisca la natura della realtà e non semplicemente con un impressione, un desiderio, una preghiera……I buddhisti sostengono quindi che le visioni distorte vadano minate da visioni non distorte.
Afflizioni reattive

Il Dalai Lama portò quindi la discussione su un tema contiguo: gli stati mentali distruttivi per reazione, tra cui le emozioni. “In generale, quando adottiamo un antidoto specifico per le afflizioni mentali, si tratta di antidoti che tendono a riflettere la natura stessa delle afflizioni. Per reagire all’attaccamento, ad esempio, ci sono meditazioni pensate per mostrare alla mente le caratteristiche non affascinanti dell’oggetto di attaccamento…Nel caso della rabbia o dell’avversione si coltiva invece l’amorevolezza.” Nel contesto del buddhismo, coltivare attraverso la meditazione l’amorevolezza e la compassione dipende dalla concentrazione su quegli aspetti della realtà che suscitano l’amorevolezza. Non emerge dal nulla, né dalla preghiera e da altre cose simili. Sorge dalla concentrazione su certi elementi della realtà che di per sé favoriscono o fanno sorgere la compassione e l’amorevolezza…..Concluse così: “Secondo il punto di vista tibetano, anche nell’affrontare le afflizioni risulta particolarmente importante capire la natura della realtà poiché la mancanza di comprensione porta alla reificazione, a una qualche forma di nichilismo o alla falsa negazione. Per questo motivo, una cognizione valida e in grado di operare delle verifiche è molto importante”.