il fuoco

 

Come accendere un fuoco? Fino a qualche anno fa tutti avevano della legna e un camino o una stufa a portata di mano; chi quotidianamente e chi magari solo qualche volta, nella casa in montagna o dai nonni. Oggi invece soprattutto i giovani rischiano di non avere mai l’occasione di dedicarsi a una simile faccenda. Non è quindi retorico ricordare sommariamente che per accendere un fuoco bisogna innanzitutto darsi parecchio da fare. Occorre preparare l’area per la combustione, rimuovendo per esempio la vecchia cenere dal camino. Bisogna attrezzarsi con ciocchi di legna secca non troppo grande e non troppo piccoli. Ci vogliono poi ramoscelli più fini e sterpaglia che ardono più facilmente e anche qualche foglio di giornale vecchio da appallottolare. A questo punto il bello e il difficile deve ancora venire. Perchè non possiamo sbattere tutti questi ingredienti nel camino, ma c’è un’architettura da rispettare: si dispone la carta appallottolata, poi la si ricopre con una trama ariosa di ramaglia, perchè il fuoco deve rspirare; infine senza soffocare questo nucleo leggero, si dispongono alcuni ciocchi di dimensioni ridotte a incastro piramidale. Ora è tutto pronto per l’innesco: si accende preferibilmente un fiammifero a stelo lungo, per evitare di bruciarsi le dita, e si da fuoco a una delle palle centrali.

Dopo aver fatto tutto ciò, entriamo nella fase cruciale dell’operazione nella quale non si tratta più tanto di fare qualcosa, ma piuttosto di lasciar accadere il processo. E’ vero, quando la fiamma è arrivata ai ramoscelli e sembra stentare ad attaccare i primi ceppi, si può certamente cercare di fare ancora qualcosa, come soffiarci sopra o smuovere leggermente il mucchio con l’attizzatoio. Bisogna però stare attenti, perchè la tentazione di strafare è sempre in agguato: a forza di soffiare o smuovere il focherello, si rischia di distruggerlo e, a quel punto, sommo è lo scoraggiamento, perchè dobbiamo ricominciare da capo. Se non si vuole abdicare all’impresa e accendere la caldaia termoautonoma, bisogna soffermarsi sulla fase sottile e delicata del lasciar che il fuoco accada.

Lasciare che il fuoco accada non significa una volta completata la fase più operativa, abbandonare il fuoco al suo destino: anche in questo secondo caso il fuoco è con ogni probabilità destinato a vita breve. Occorre avere “cura” del fuoco; senza necessariamente fare nulla di visibile, ma semplicemente essendo capaci di sostare per un certo tempo sul suo accadere. Non basta guardare il fuoco, per così dire, passivamente. Si tratta piuttosto di prendere in consegna il manifestarsi di questo evento, con la luce e il tepore che emana. Solo quando prendiamo consapevolezza intimamente della natura del fuoco, siamo in grado di intervenire intuitivamente con qualche piccolo tocco ben assestato che rinvigorisca la fiamma invece di smorzarla.

Abitare lo spazio della cura

Nell’attendere al fuoco c’è quindi una oscillazione continua tra il fare e l’accadere. Nessuno dei due deve predominare. Se si diventa eccessivamente pigri e contemplativi, si assiste al suo inevitabile consumarsi. Il segreto sta quindi nell’abitare lo spazio dell’aver cura. E questo spazio della cura, collocato tra il fare e l’accadere, è essenziale non solo per accendere il fuoco ma anche per una pratica sana dello yoga…………….

E perchè qualcosa accada c’è bisogno soprattutto di attenzione. Altrimenti come facciamo a sapere se è accaduto veramente? Affinchè ci sia attenzione ci vuole quiete e cura Insomma perchè il fuoco si manifesti bisogna essere sensibili e capaci di ascolto. Capaci di saggezza oltre che di azione.

la cura del fuoco

Esiste una correlazione tra ardere e sapere. L’autentico ardore non è mai fine a se stesso, ma produce una forma di sapere; anzi, per sapere bisogna ardere. Ogni altra conoscenza è inefficace. Inutile dire che quì si delinea una concezione del sapere e della conoscenza molto diversa da quella a cui siamo abituati, ossia un edificio in cima al quale c’è l’idea, intesa come immagine e rappresentazione. Il tipo di sapere a cui invece erano interessati gli antichi rsi, se veniva slegato dalla vampa che arde, diventava qualcosa di inconsistente e sostanzialmente inutile.

Uno spazio di consapevolezza

Saper abitare il ritmo della cura e sostenere l’oscillazione continua tra il fare e l’accadere ha infine delle forti implicazioni sul nostro essere soggetti individuali. Mentre l’attività del fare generalmente implica il riferimento ad un soggetto, la dimensione dell’accadere non presuppone la presenza di un soggetto (tantomeno di un Soggetto in senso forte), ma piuttosto l’apertura di uno spazio di consapevolezza. Se è vero che lo yoga ci insegna a limare i confini della nostra soggettività a favore dell’emersione di un sè più ampio e comprensivo, imparare ad abbandonare il protagonismo del fare, a favore di un “diventar spettatori” extra-soggettivi di ciò che si svela come puro accadimento, può rappresentare un esercizio forse non del tutto inutile sulla via.

Quaderni di yoga- YANI-Percorsi Yoga, anno XVII n° 70, Giulia Moiraghi: Tra il fare e il lasciar accadere 

Testo consigliato: “L’Ardore – Roberto Calasso – Biblioteca Adelphi